Quando lavoravo come graphic designer, avevo un cliente che non faceva altro che parlarmi di ARMAÇÃO DOS BUZIOS, o semplicemente Buzios, una piccola e rinomata località turistica situata a nord di Rio de Janeiro, raggiungibile in sole tre ore di bus con diverse corse al giorno.
Lì aveva aperto una pousada e m’invitava, ogni anno, a passare il capodanno al caldo, in Brasile tra mare e divertimento. Quanto avrei voluto farlo, ma in quel periodo mi era praticamente impossibile avere almeno due settimane di ferie, così, quando decisi che sarei partito per il Sud America, gli dissi che era giunto il momento di accettare il suo invito e mi feci lasciare il contatto dei suoi due figli che gestivano la pousada.
IL SALUTO DI BUZIOS
Da quel giorno era passato poco più di un anno e, dopo aver raggiunto Buzios per la prima volta a gennaio, l’avevo scelta come ultima tappa del mio viaggio in Sud America per godermi al meglio le sue bellissime spiagge e perché da qui avrei raggiunto con “poche” ore di bus San Paolo, città dalla quale sarei partito per ritornare in Europa.
Ormai ero arrivato nella mia ultima struttura, ma in realtà molte cose avevano il sapore dell’ultima volta. Quando mi fermavo per un’istante pensavo: “questa è l’ultima volta che lo faccio. Sono passati così in fretta 14 mesi? Sembrava ieri quando sbarbato e incosciente per tutto quello che avrei vissuto, partivo dall’Italia per raggiungere Bogotà.”
Quattordici mesi possono sembrare tanti e in realtà lo sono, ma quando si è in viaggio il tempo passa così velocemente tanto da non rendersene conto.
Ad aprile Buzios era molto più vuota e tranquilla rispetto a gennaio, in piena estate brasiliana quando le sue piccole strade ciottolate erano gremite di gente che passeggiava verso uno dei tanti ristoranti o discoteche intenta a divertirsi e trascorrere al meglio la propria vacanza. Quelle stesse strade erano più vuote e silenziose, come se anche Buzios rispecchiasse il mio umore.
Volevo godermi gli ultimi giorni come avevo sempre fatto, ma non nascondo che spesso mi chiedevo cosa avrei provato l’ultimo giorno, come l’avrei vissuto e come mi sarei sentito e, nella mia mente, costruivo ipotesi, sensazioni, immaginazioni fino a quando scuotevo la testa e la liberavo da ogni pensiero. “Sarà quel sarà” mi ripetevo per non pensarci.
Passavo le giornate in compagnia di Ludovico e Kim, i due ragazzi baresi che gestivano la Pousada Buzios, alcuni loro amici e altri ragazzi che avevo conosciuto mentre ero in una delle tante spiagge.
Questa era una caratteristica che mi piaceva di questo posto, la varietà di spiagge presenti nelle vicinanze. Alcune erano raggiungibili con una piacevole passeggiata a piedi, mentre altre un po’ più lontane, con i mezzi.
In quei giorni più tranquilli ho approfittato per scoprire luoghi che non ero riuscito a vedere nella mia prima volta a Buzios, come Ilha Feia (isola brutta) una piccola isola deserta situata a circa un’ora di navigazione dalla costa e sulla quale abbiamo passato la notte accampandoci in una grotta situata nei pressi della spiaggia. Grigliata, birre, musica e risate erano accompagnate delle stelle luminose e dal suono del mare che accarezzava i ciottoli della riva.
Notte stellata Ilha FeiaLe giornate passavano seguendo i lenti ritmi sudamericani, tra una spiaggia e l’altra, alternando caipirinha a guaranà, parlando con altri viaggiatori, principalmente argentini o uruguaiani e gustandomi ogni sera il bellissimo tramonto di un color arancio intenso che segnava la fine di un altro giorno e indicava l’avvicinarsi dell’epilogo del viaggio, finché non arrivò la mia ultima notte non solo a Buzios, ma anche in Sud America.
Prima di salutare tutti e chiudere per l’ultima volta lo zaino, ho deciso di farmi un ultimo regalo; gustarmi l’alba al mare. Con il cielo ancora scuro ho lasciato alle mie spalle l’ingresso della pousada e mi sono diretto in spiaggia. Le strade erano vuote e silenziose. C’ero io con i miei pensieri e i miei ricordi, gli auricolari nelle orecchie con l’inseparabile musica da sottofondo e un’esplosione di sensazioni.
Una volta in spiaggia ho deciso di raggiungere la fine del pontile, dal quale partivano i taxi boat, per vedere meglio il sorgere del sole e per essere più vicino all’oceano, quello che tra qualche ora avrei sorvolato per ritornare a casa.
Il cielo si faceva più chiaro. La notte lasciava spazio al giorno mentre i miei occhi diventavano sempre più lucidi finché mi sono lasciato andare in un pianto liberatorio. Mentre ero lì, a pochi centimetri dal mare ridevo e piangevo allo stesso tempo. Se qualcuno mi avesse visto mi avrebbe preso per pazzo, ma non m’importava di niente, perché io ce l’avevo fatta. Avevo realizzato il mio SOGNO!
Avevo vissuto esperienze che mai avrei immaginato. Avevo conosciuto persone meravigliose che mi avevano insegnato tanto. Ero cambiato, cresciuto e migliorato. Avevo seguito la mia strada e il mio cuore e questa era la cosa più importante.
Ero lì, su quel pontile con gli occhi gonfi, ma pieni di amore per me e per la vita. Ero grato per tutto. Quante volte avevo immaginato questo momento. Non sapevo come sarebbe stato, ma avrei voluto passarlo proprio così, in riva al mare guardando l’alba e per un attimo ho pensato quanto fossi stato fortunato ad essere stato nuovamente accontentato dalla Pachamama.
Pensavo che l’ultimo giorno sarei stato malinconico o non sarei voluto tornare, perché se già dopo una vacanza normale di circa due settimane facevo fatica a rientrare in Italia e vivevo le ultime ore in tristezza e sconforto, chissà come sarebbe stato dopo quattordici mesi e invece in quella situazione non provavo nulla di tutto ciò, anzi ero grato, felice e sereno. Avevo raggiunto un’altra consapevolezza. Per la prima volta nella mia vita avevo scelto quando rientrare e non lo facevo perché obbligato dalla fine delle ferie o da altri motivi. Avevo scelto io che il 29 aprile del 2019, dopo esattamente quattordici mesi e un giorno, sarebbe dovuta finire la mia avventura.
La differenza è stata la scelta e ciò è determinante per la nostra vita. Avere la libertà di scegliere è fondamentale per essere sereni, ma molte volte abbiamo paura di farlo e lasciamo che sia la vita, gli eventi o qualcun altro a scegliere per noi. Preferiamo inserire il pilota automatico piuttosto che impugnare saldamente il volante e diventare i piloti della nostra vita.
Quel viaggio mi aveva insegnato qualcosa fino all’ultimo istante. Ho sempre creduto che viaggiare servisse a crescere più rapidamente, a maturare e diventare più sicuri di sé, ma ora ne avevo la certezza. Viaggiare c’insegna che le differenze sono un dono e un modo per arricchirci dentro. Viaggiare ci rende più gentili e generosi con il prossimo, ma anche meno diffidenti e cattivi. Viaggiare ci mette alla prova e c’insegna che lamentarci non serve a nulla, anzi sono solo fiato ed energie sprecate. Quando si è in viaggio, soprattutto in solitaria, non si ha il tempo materiale di lamentarsi perché si cerca una soluzione il prima possibile e se qualcosa va storto, nella maggior parte dei casi ci si ripete che sarebbe dovuto andar così. La positività entra nel nostro animo e io credo che positività attiri positività, come negatività attiri negatività. Viaggiare c’insegna che molte cose che pensiamo essere essenziali, in realtà non lo sono.
Il mio saluto al Sud America